Roma – “La genetica ci permette di leggere il passato e di scoprire dettagli molto importanti per pandemia, come quelle di peste, che tanto hanno condizionato la storia umana”. Lo ha spiegato Giovanni Rezza, Professore di Igiene e Sanità Pubblica, Università Vita-Salute San Raffaele, Milano. “Escono oggi – spiega Rezza – sulla prestigiosa rivista Science due articoli di archeo-genomica microbica, relativi alla lebbra e alla peste. Il primo ha soprattutto un’importanza storica: si pensava infatti che la lebbra fosse stata importata dall’Europa nel continente americano a seguito della sua scoperta e successiva conquista, mentre l’analisi genomica ha permesso di rilevare la presenza di Mycobacterium lepromatosis, uno stretto parente di M. leprae (il principale agente causale della lebbra a livello globale), resti umani risalenti a periodi anteriori all’arrivo degli europei. Dal momento che anche M. lepromatosis è in grado di causare quest’antica quanto stigmatizzante malattia, se ne deduce che la lebbra fosse presente nelle Americhe anche prima dell’arrivo dei conquistatori europei”.
“Più interessante per quanto riguarda le ricadute scientifiche e sanitarie – precisa Rezza – è il secondo articolo, che riguarda un flagello storico dell’umanità: la peste e il micro-organismo che ne rappresenta la causa, ovvero Yersinia pestis. Lo studio ha riguardato il periodo pandemico successivo a due eventi maggiori del passato, la peste di “Giustiniano” (541-544) e la “peste nera” (1346-53), nonché un’ondata iniziata nel 1855 la cui diffusione pandemica è ancora in corso, anche se caratterizzata da un basso numero di casi localizzati soprattutto in alcune aree dell’Asia.
Scoperti i meccanismi genetici che hanno determinato le grandi pandemie di peste del passato
In parole semplici, in tutti e tre i casi, un’ondata iniziale fu seguita da una circolazione persistente del germe a livelli più bassi, e – ciò che più è interessante – in tutti i casi è stata riscontrata nel tempo la delezione del gene di virulenza denominato pla (in quanto codificato nel plasmide, componente del DNA batterico) nei resti umani risalenti al periodo successivo allo scoppio della pandemia”. “La conseguenza della perdita di un gene di virulenza – ha spiegato – è consistita in una attenuazione della aggressività clinica e in un prolungamento del tempo di infezione nel modello animale rappresentato dal topo. Come sappiamo, la peste ha un ciclo in cui Y. pestis viene trasmessa tramite le pulci dai roditori all’uomo. Se il batterio è particolarmente virulento, allora si avrà un’elevata mortalità anche nei ratti (o nei topi), per cui la popolazione animale si diraderà. La diminuzione della densità della popolazione darà un vantaggio selettivo ai ceppi batterici che non uccidono subito l’animale, e questo è il motivo per cui, paradossalmente, non prevarranno i ceppi in grado di dare cariche batteriche più elevate bensì quelli che permetteranno all’animale di girovagare più a lungo e trovare nuovi contatti”. Naturalmente, “ciò che è stato visto per la peste bubbonica non vale per qualsiasi tipo di malattia infettiva, e comunque la malattia rimane grave nel topo (e anche nell’uomo), anche se con un decorso meno rapido. Del resto, durante la recente pandemia di COVID abbiamo visto come un virus può modificare le sue caratteristiche (ad esempio diventare più trasmissibile ma meno virulento) come risultato di processi di mutazione/selezione propri dei meccanismi evolutivi Darwiniani. Nel caso della peste, il processo selettivo deriva dai cambiamenti della struttura della popolazione animale e non ha invece a che fare con ciò che avviene nell’ospite umano. Ancora una volta il progresso scientifico ci sorprende, e la genomica apre nuove frontiere nella comprensione della natura e dell’evoluzione delle pandemie passate e future”.(30Science.com)