Roma, 5 mag. – Nuovi rinvenimenti stanno per essere portati alla luce in un’area dell’antica Akragas. Grazie alle indagini geofisiche effettuate in una zona a nord della Plateia I-L, è stato possibile individuare e far riemergere i resti di un muro in grossi blocchi di calcare locale, appartenente ad un edificio risalente, secondo le ipotesi, al periodo ellenistico o addirittura classico, che, per la sua collocazione vicina all’ingresso del santuario degli “altari circolari”, potrebbe comunque avere un ruolo nella topografia religiosa di Akragas. Dall’esigenza di individuare i settori di quest’area potenzialmente ricchi di resti archeologici non ancora emersi è nata la collaborazione scientifica tra le università di Bordeaux e di Catania, quest’ultima tramite il dipartimento di Scienze umanistiche e il Laboratorio di Geofisica applicata afferente al dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali che da anni si occupa dell’applicazione di tecniche di geofisica applicata nel contesto dei beni culturali e della ricerca archeologica, collaborando con i parchi e le soprintendenze della Sicilia orientale. Dal 2022, Émilie Cayre, ricercatrice del Major Research Programme Human Past, sostenuta dall’Università di Bordeaux-Montaigne e dal Dipartimento di Scienze archeologiche dell’ateneo francese, ha intrapreso uno studio sul fenomeno delle processioni nell’antichità. Il santuario delle divinità ctonie di Agrigento, legate ai culti di dei sotterranei e personificazione di forze sismiche o vulcaniche, è stato scelto come caso di studio per la sua posizione geografica, all’estremità orientale della Plateia I-L: un luogo che permetteva l’accesso dalla città e che molto probabilmente veniva utilizzata durante le feste Thesmophoria per raggiungere il santuario extraurbano di Sant’Anna.
Le campagne di indagini geofisiche sono state autorizzate dal direttore del Parco Valle dei Templi, arch. Roberto Sciarratta, sotto la supervisione della dirigente archeologa Valentina Caminneci, e sono consistite nella esecuzione di una prospezione elettromagnetometrica a copertura dell’intera area e di successive indagini geolettriche multielettrodiche 2D, al fine di aumentare il dettaglio dei risultati. Esse sono state guidate dal prof. Sebastiano Imposa, associato di Geofisica applicata e responsabile del Laboratorio dell’ateneo catanese, coadiuvato dai dottori Sabrina Grassi, Gabriele Morreale e Claudia Pirrotta, e hanno coinvolto anche il geologo Angelo Gilotti e il prof. Luigi Caliò, presidente del corso di laurea magistrale in Archeologia del dipartimento di Scienze umanistiche dell’Università di Catania. “L’elaborazione dei dati acquisiti durante le campagne di indagine e l’interpretazione dei risultati – spiega il prof. Imposa -, ha consentito di individuare la presenza di anomalie nel sottosuolo dell’area investigata e di poter delimitare delle sub-aree, all’interno delle quali è risultata molto evidente la presenza di forti variazioni nei parametri fisici, imputabili a resti di strutture di origine antropica sepolti”. Sulla base dei risultati ottenuti il 21 aprile scorso, una équipe di studenti e dottorandi, tra cui il dott. Dario Giuliano dell’Università di Palermo, guidati dalla prof.ssa Laurence Cavalier, docente di Storia dell’Arte e Archeologia antica all’Università Bordeaux-Montaigne – Istituto di ricerca Ausonius, ha effettuato un primo saggio di prova in una delle aree individuate dalle prospezioni geofisiche eseguite dai ricercatori dell’Università di Catania. “I risultati sono stati subito in linea con i dati ottenuti dalle prospezioni – aggiunge il docente -. i resti di un muro in grossi blocchi di calcare locale sono stati rapidamente portati alla luce laddove la prospezione aveva rivelato la presenza di forti anomalie. Da una prima analisi sembra che questo muro poggi in parte sulla roccia tagliata e mostri un orientamento diverso da quello del vicino quartiere ellenistico-romano”. “Le ceramiche raccolte sono attualmente in fase di studio, ma sembrerebbe che questo edificio, di cui al momento non è possibile precisare la funzione, possa risalire al periodo ellenistico o addirittura classico”. Il ruolo delle indagini geofisiche “Lo scavo – osserva il prof. Imposa – è un’operazione lunga, complessa e costosa, che modifica in modo permanente il sottosuolo dopo la sua realizzazione. Pertanto le indagini di geofisica applicata, che consentono di raccogliere informazioni a priori in modo assolutamente non invasivo sulle aree da scavare, grazie alla loro capacità di individuare la presenza di strutture sepolte misurando le variazioni o anomalie delle proprietà fisiche esistenti tra loro e il sottosuolo che li ospita, si rivelano una risorsa preziosissima per l’archeologo”. Questo genere di analisi, che hanno acquisito un ruolo sempre più rilevante all’interno dei progetti di ricerca archeologica nel corso degli ultimi due decenni, per il prof. Imposa, “restituisce una “fotografia” di quanto è conservato sotto i nostri piedi senza modificare in alcun modo l’aspetto del sottosuolo, fornendo precise indicazioni che possono indirizzare e conseguentemente velocizzare le successive fasi di scavo. Sono di conseguenza chiare le potenzialità e l’apporto che queste tecniche offrono anche per la “fruizione” e la salvaguardia del patrimonio sepolto”.(30Science.com)