Roma – Alcuni batteri isolati dal suolo potrebbero eliminare gli “inquinanti eterni”, sostanze che, una volta disperse nell’ambiente, non si degradano e minacciano la salute dell’uomo e del pianeta: sono le sostanze per- e polifluoroalchiliche (PFAS), presenti in un’ampia gamma di prodotti, dai cosmetici agli imballaggi alimentari, dagli utensili da cucina ai detersivi. Un gruppo di ricerca dell’Università Cattolica di Piacenza, infatti, ha isolato da suoli contaminati da PFAS in Veneto circa 20 specie di batteri in grado di degradarli, ovvero di utilizzarli come fonte di energia (come unica fonte di carbonio).
Il lavoro, coordinato dal Professor Edoardo Puglisi della Facoltà di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali dell’Università Cattolica, è stato svolto in collaborazione con il gruppo del Prof. Giancarlo Renella dell’Università di Padova e presentato alla conferenza europea SETAC, il 35° incontro annuale della Society of Environmental Toxicology and Chemistry, tenutosi a Vienna nel maggio 2025.
La crescente contaminazione del suolo e delle falde acquifere da parte dei PFAS rappresenta una sfida ambientale significativa a causa della loro persistenza, mobilità e degli effetti nocivi associati. Il forte legame chimico tra carbonio e fluoro in queste molecole rende i PFAS difficili da biodegradare nell’ambiente, da cui il termine “sostanze chimiche eterne”.
I PFAS sono una famiglia altamente eterogenea di composti chimici prodotti industrialmente fin dagli anni ’40 per le loro proprietà idrorepellenti e oleorepellenti. Queste caratteristiche ne hanno favorito l’ampio utilizzo in tessuti, rivestimenti, cosmetici e imballaggi, ma sono anche la causa della loro recalcitranza, della loro capacità di accumularsi nell’ambiente e nelle cellule e dei loro effetti tossici sull’uomo. I PFAS sono stati associati al rischio di diverse patologie come il diabete e le disfunzioni ormonali.
Nello specifico, nell’area oggetto dell’indagine, in provincia di Vicenza, la contaminazione industriale, probabilmente causata da una fabbrica locale, ha portato a una contaminazione diffusa delle falde acquifere, dei terreni, delle colture e persino delle acque potabili, con concentrazioni fino a oltre 1000 ng/L.
Gli esperti dell’Università Cattolica hanno voluto isolare e identificare microrganismi promettenti in grado di degradare i PFAS, prelevati da siti contaminati. A tal fine, hanno analizzato la diversità microbica in suoli contenenti PFAS campionati in aree inquinate del Nord Italia, in particolare in siti altamente contaminati del Veneto, nelle province di Vicenza e Padova. Gli esperti hanno combinato tecniche di microbiologia classica per l’isolamento dei batteri di interesse con il metabarcoding, una tecnica di biologia molecolare basata sul sequenziamento del DNA raccolto in un campione ambientale, utilizzata per identificare rapidamente le specie presenti, fornendo indicazioni sul potenziale di biorisanamento dei PFAS.
Il professor Puglisi spiega: “Abbiamo ottenuto questi batteri che si nutrono di PFAS attraverso un processo chiamato “arricchimento”, che prevede la loro crescita in terreni in cui hanno solo PFAS di cui nutrirsi. Disponiamo già dei genomi completi di questi 20 ceppi che si nutrono di PFAS”, continua l’esperto, “e informazioni sui tassi di degradazione di ciascuno”. In collaborazione con il gruppo di chimica del nostro dipartimento, abbiamo misurato l’efficienza di degradazione dei PFAS, raggiungendo valori in alcuni casi superiori al 30%, un valore molto elevato per questa classe di composti. Sono ora in corso test su diversi PFAS, a cui seguiranno i primi esperimenti di laboratorio per verificarne la capacità di bonifica in condizioni più rappresentative.
“Stiamo studiando questi ceppi in modo più approfondito e analizzandone i genomi: sono classificati nei generi noti nel campo del biorisanamento come Micrococcus, Rhodanobacter, Pseudoxanthomonas e Achromobacter”, spiega Puglisi. Questi batteri sono facilmente coltivabili in laboratorio e solitamente non sono dannosi per l’uomo. Inoltre, è possibile che l’analisi del genoma porti alla scoperta di geni coinvolti nella biodegradazione, che potrebbero essere sfruttati biotecnologicamente in futuro”, sottolinea l’esperto.
Questa ricerca fornirà nuove informazioni sulla degradazione dei PFAS e potrebbe contribuire allo sviluppo di strategie sostenibili di biorisanamento per gli ambienti contaminati da queste sostanze.(30Science.com)