Lucrezia Parpaglioni

Un terzo dei giocatori di football crede di avere la CTE

(23 Settembre 2024)

Roma  – Circa un terzo dei giocatori della lega di football NFL crede di essere affetto da encefalopatia traumatica cronica, CTE, una condizione neuropatologica legata a ripetuti traumi cranici che può essere diagnosticata solo attraverso un esame post-mortem del cervello. Lo rivela uno studio condotto su quasi 2.000 ex giocatori della lega di football NFL da un gruppo di ricercatori del Mass General Brigham, che fanno parte del Football Players Health Study dell’Università di Harvard, riportato su JAMA Neurology. Sebbene non sia ancora possibile confermare se una persona viva sia affetta da CTE, lo studio ha rilevato che il 35% degli ex giocatori della NFL si era autodiagnosticato la malattia. Coloro che pensavano di avere la CTE riferivano comunemente sintomi cognitivi, oltre a testosterone basso, depressione, dolore e altre condizioni curabili che possono causare problemi cognitivi. Su una coorte di quasi 2.000 ex giocatori della NFL, il 25% di coloro che credevano di avere la CTE ha riferito di avere frequenti pensieri suicidi, rispetto al 5% dei giocatori che non avevano questa convinzione. Secondo gli autori dello studio, i giocatori che ritenevano di essere affetti da CTE hanno riportato un numero significativamente maggiore di problemi cognitivi e una percentuale più elevata di testosterone basso, depressione, mal di testa e dolore cronico, rispetto a coloro che non avevano dubbi sulla CTE. È stato dimostrato che queste condizioni e altre causano problemi cognitivi anche in chi non ha subito lesioni alla testa, il che indica che tali sintomi potrebbero essere indipendenti dalla CTE. I ricercatori avvertono che tutti i sintomi neurocognitivi devono essere presi in seria considerazione dai medici. Questi includono cambiamenti neurodegenerativi nel cervello, considerati ed esclusi attraverso valutazioni neurocognitive, tra cui esami fisici, risonanza magnetica e TAC. Questo perché i sintomi neurocognitivi possono derivare da una serie di cause non correlate alla CTE, una condizione che può essere diagnosticata definitivamente solo con l’autopsia. I ricercatori precisano, inoltre, che i giocatori con sintomi neurologici e tendenza al suicidio possono effettivamente essere diagnosticati con la CTE, ma questo può essere appurato solo attraverso un esame post-mortem. “In quanto esseri umani complessi, le nostre convinzioni possono avere un forte impatto sulla nostra salute”, ha dichiarato Ross Zafonte, presidente della Spaulding Rehabilitation e primario dei dipartimenti di Medicina fisica e riabilitazione del Massachusetts General Hospital e del Brigham and Women’s Hospital. “I sintomi che destano preoccupazione per la CTE sono reali e le preoccupazioni per la CTE sono valide, ma è fondamentale capire che avere timori persistenti su questa condizione può avere un impatto sulla salute mentale”, ha continuato Zafonte, che è anche autore dello studio e ricercatore principale del Football Players Health Study di Harvard. “Quando questi timori scoraggiano gli ex giocatori della NFL dal sottoporsi a trattamenti efficaci per altre patologie o per condizioni interconnesse legate alla salute fisica ed emotiva, è nostra responsabilità intervenire”, ha proseguito Zafonte. Ricevere una diagnosi di malattie neurodegenerative incurabili come l’Alzheimer, il Parkinson e la malattia di Huntington è associato a un elevato rischio di suicidio. Per verificare se la percezione della CTE presenti associazioni simili con la tendenza al suicidio, i ricercatori hanno intervistato 1.980 ex giocatori di football professionisti. Questi intendevanoscoprire in quale percentuale credono di avere la CTE, quali caratteristiche dei giocatori sono comunemente associate a questa convinzione e se i timori della CTE sono associati a frequenti pensieri di suicidio o autolesionismo. L’analisi ha mostrato che il 34% dei giocatori crede di avere la CTE. I partecipanti che hanno espresso preoccupazioni sulla CTE avevano maggiori probabilità di riferire testosterone basso, depressione, instabilità dell’umore, dolore, sintomi cognitivi e lesioni alla testa più frequenti. Circa il 25% dei partecipanti che credevano di essere affetti da CTE ha anche riferito di avere istinti suicida, rispetto al 5% dei partecipanti che non credevano di essere affetti da CTE. Nelle analisi che tenevano conto dell’influenza dei sintomi depressivi sulla tendenza al suicidio, coloro che credevano di avere la CTE avevano comunque il doppio delle probabilità di riferire frequenti pensieri di suicidio o autolesionismo, anche se avevano livelli simili di depressione. Questo dato suggerisce che una parte della predisposizione al suicidio può derivare dall’ipotesi che un ex giocatore abbia una malattia neurodegenerativa non curabile piuttosto che dalla depressione. “Sebbene le preoccupazioni per la CTE siano legittime, il trattamento delle condizioni di comorbidità può alleviare i sintomi e migliorare l’umore generale”, hanno affermato i ricercatori. “Un dato fondamentale che emerge da questo studio è che molte condizioni comuni agli ex giocatori della NFL, come l’apnea notturna, il testosterone basso, l’ipertensione e il dolore cronico, possono causare problemi di pensiero, memoria e concentrazione”, ha detto Rachel Grashow, della Harvard T. H. Chan School of Public Health e prima autrice del lavoro. “Mentre aspettiamo che i progressi della ricerca sulla CTE affrontino meglio le esperienze dei giocatori viventi, è imperativo identificare le condizioni che possono essere trattate”, ha aggiunto Grashow. “Questi sforzi possono ridurre le possibilità che i giocatori attribuiscano prematuramente i sintomi alla CTE, il che può portare alla disperazione e a pensieri di autolesionismo”, ha evidenziato Grashow. Poiché attualmente la CTE può essere diagnosticata solo con l’autopsia, i ricercatori non possono escludere che alcuni dei giocatori che hanno segnalato preoccupazioni presentino effettivamente alterazioni cerebrali legate alla CTE, ma ritengono che sia importante che gli ex giocatori e i loro medici si concentrino sulle cose che possono essere trattate. “Fino a quando non saranno disponibili linee guida cliniche e trattamenti per la CTE, gli ex giocatori e i loro medici dovrebbero esplorare gli interventi terapeutici e i cambiamenti positivi del comportamento sanitario che hanno dimostrato di migliorare la funzione cognitiva, la salute generale e la qualità della vita”, ha sottolineato Aaron Baggish, professore di medicina all’Università di Losanna in Svizzera, membro senior del Football Players Health Study ed ex direttore del Cardiovascular Performance Program presso il Massachusetts General Hospital Heart Center. “Gli interventi che includono la perdita di peso, l’esercizio fisico, il miglioramento del sonno e l’attuazione di una dieta a basso contenuto di sale possono migliorare la funzione cognitiva”, ha concluso Baggish, che è anche autore senior dello studio. (30Science.com)

Lucrezia Parpaglioni
Sono nata nel 1992. Sono laureata in Media Comunicazione digitale e Giornalismo presso l'Università Sapienza di Roma. Durante il mio percorso di studi ho svolto un'attività di tirocinio presso l'ufficio stampa del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Qui ho potuto confrontarmi con il mondo della scienza fatto di prove, scoperte e ricercatori. E devo ammettere che la cosa mi è piaciuta. D'altronde era prevedibile che chi ha da sempre come idolo Margherita Hack e Sheldon Cooper come spirito guida si appassionasse a questa realtà. Da qui la mia voglia di scrivere di scienza, di fare divulgazione e perché no? Dimostrare che la scienza può essere anche divertente.