Roma – SARS-CoV-2, il virus responsabile del Covid-19, potrebbe essere più diffuso tra le specie selvatiche di quanto precedentemente ipotizzato. Lo evidenzia uno studio, pubblicato sulla rivista Nature Communications, condotto dagli scienziati del Fralin Biomedical Research Institute presso la Virginia Tech University. Il team, guidato da Carla Finkielstein, ha eseguito dei test su 23 specie comuni della Virginia, cercando infezioni attive e anticorpi elicitati in risposta all’esposizione precedente. Gli studiosi hanno raccolto 798 tamponi nasali e orali da animali catturati vivi e rilasciati, e 126 campioni di sangue da sei specie. Il gruppo di ricerca ha rilevato anticorpi specifici in sei specie comuni da cortile, con tassi che spaziavano dal 40 al 60 per cento. In particolare, i segni di una passata infezione sono emersi in topi, opossum, procioni, marmotte, conigli selvatici e pipistrelli. Questo lavoro, spiegano gli autori, mostra che il monitoraggio genetico negli animali selvatici è fondamentale per individuare l’esistenza di mutazioni genetiche specifiche e strettamente corrispondenti alle varianti circolanti negli esseri umani. I risultati avvalorano le ipotesi di trasmissione da uomo ad animale. L’esposizione più elevata, riportano gli autori, è stata riscontrata tra gli animali che frequentavano i sentieri escursionistici e le aree pubbliche molto trafficate.
newCOVID wildlife mutation simulation 2
I dati ottenuti evidenziano nuove mutazioni potenzialmente pericolose di SARS-CoV-2, per cui sarà indispensabile istituire un monitoraggio più attento della fauna selvatica. “In generale – afferma Finkielstein – i virus devono attaccarsi a un ospite per sopravvivere. Visto l’effetto protettivo delle vaccinazioni per gli esseri umani, gli agenti patogeni si sono diffusi nella fauna selvatica, adattandosi e mutando per prosperare in nuovi ospiti”. “Questo studio – commenta Joseph Hoyt, autore corrispondente dell’articolo – suggerisce che il nuovo coronavirus si è diffuso nella fauna selvatica e le aree con elevati livelli di attività umana possono rappresentare punti di contatto per la trasmissione interspecie”. Sebbene sarà necessario proseguire le ricerche per capire i mezzi di diffusione del virus, gli autori ipotizzano che le acque reflue, i contenitori della spazzatura e gli scarti di cibo costituiscano le fonti più probabili. “Credo che il messaggio chiaro che emerge da questi risultati sia che il virus è piuttosto onnipresente – conclude Amanda Goldberg, prima firma dell’articolo – nel nostro lavoro ci siamo concentrati sulle specie della Virginia, ma è ragionevole ipotizzare che la situazione sia molto simile anche in altre zone. Per questo è davvero importante adottare un sistema di monitoraggio, basato anche sul sequenziamento del genoma virale. È necessario un approccio multidisciplinare per affrontare efficacemente l’impatto di SARS-CoV-2 sulle varie specie ed ecosistemi”.(30Science.com)