Roma – Amici e colleghi, scappare su Bluesky non risolverà un bel niente. Lasciare X, fare le valigie da Facebook e Instagram perchè Zuck chiudendo il factchecking si è arreso a Trump, non formerà una nuova maggioranza politica. Al massimo formerà una nuova bolla nella quale tutti noi, che per lavoro, per passione, o per destino, ci troveremo l’un con l’altro e a dirci quanto siamo bravi. Il nostro lavoro però non è quello di compiacerci, ma di portare i risultati della scienza nella società. Il nostro lavoro è quello di far conoscere gli avanzamenti del sapere umano e di raggiungere il numero più alto di persone possibili.
Uscire dai social, è la certificazione del fallimento del nostro lavoro, della nostra missione.
La vittoria di Donald Trump rappresenta molto più di un evento politico. È un barometro culturale globale, il simbolo di una disconnessione tra la scienza e la società.
E’ dentro questa disconnessione che abbiamo il dovere di guardare perché è avvenuta anche per effetto del nostro lavoro quotidiano.
La certificazione dello scollamento tra scienza e società è un fallimento per noi che abbiamo come obiettivo proprio quello di portare la scienza nella società. Non è successo all’improvviso. Il terreno su cui si è propagata questa frattura è stato sapientemente coltivato negli anni, in milioni di articoli, commenti, editoriali, interviste, like e condivisioni.
Dal clima, alla salute, non c’è ambito in cui gli esiti recenti delle elezioni presidenziali americane non ci interroghino.
Noi, come comunicatori scientifici, non possiamo esimerci dalle nostre responsabilità. Abbiamo passato anni a descrivere scenari, spesso apocalittici che, lungi dall’essere invenzioni mediatiche, trovano riscontro in un corpus vastissimo di pubblicazioni scientifiche e dati verificabili. Tuttavia, abbiamo spesso trasmesso queste informazioni come verità assolute, senza preoccuparci di come venivano percepite. Quante abbiamo detto “lo dice la scienza” come fosse una sentenza inappellabile.
Quando i giovani di Fridays for Future scendevano in piazza, urlando la loro eco-ansia, abbiamo applaudito perché abbiamo visto in loro la mobilitazione di una parte della società che stava cominciando a chiedere un cambiamento in un un’ottica di mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici. Se avessimo avuto gli occhi giusti per guardare, ci saremmo dovuti accorgere che non c’era molto da applaudire. Anzi.
Un sondaggio globale del 2021 pubblicato su The Lancet ha rilevato che il 59% dei giovani tra i 16 e i 25 anni si sente molto o estremamente preoccupato per il cambiamento climatico, e il 45% afferma che l’ansia climatica influenza negativamente la propria vita quotidiana.
C’era da mettersi le mani nei capelli davanti a quelle percentuali. Altro che applausi. Sentire ragazzi di 19 anni dire che non faranno figli perché preoccupati dai rischi collegati alla crisi climatica, dovrebbe far suonare tutti i campanelli di allarme. Ma non è andata così.
Intendiamoci, avevamo avuto dei segnali che qualcosa non stesse funzionando. Proprio noi qui in Italia, alle prese con Peppe Grillo al congresso dei Terrapiattisti a Palermo nel 2019, ne siamo stati fiera avanguardia.
Anche con la pandemia, le cose non sono andate meglio e Trump già era alla Casa Bianca. Mario Draghi, parlando della pandemia, disse chiaramente: “Se non ti vaccini, muori”. Parole dure e dirette, che hanno polarizzato ulteriormente l’opinione pubblica. Il panico e la paura, strumenti comunicativi a breve termine, non hanno fatto altro che consolidare posizioni di rigetto. Dopo Draghi, in Italia è arrivato il governo di Meloni.
Abbiamo fatto tutti spallucce. E se non lo abbiamo fatto, non siamo stati capaci di capire che implicazioni avessero in termini di organizzazione del dibattito pubblico. Non abbiamo capito che quella paura stava generando anche il suo opposto: un rifiuto completo del tema che si è incarnato nella figura del neo Presidente degli Stati Uniti.
Se alle persone dici che moriranno tutte, è inevitabile che smetteranno di darti ascolto e cominceranno a dar credito a chi dice loro che “non è vero niente” e che comunque anche se il clima cambia, “non è colpa nostra” e di certo “non è colpa della tua auto”.
All’inizio credevamo di sapere cosa fare. Parlavamo di fake news, invocavamo i dati e il fact-checking, fiduciosi che la verità sarebbe emersa da sola. Abbiamo passato anni a esporre curve, scenari e grafici, ma ci siamo illusi che bastasse. Abbiamo creduto che il fact-checking e i dati potessero bastare, ma siamo stati travolti.
Sapevamo che sarebbe andata così anche con Trump e il clima. Studi come quelli di Walter Quattrociocchi, insieme a quelli di Cass Sunstein sul comportamento collettivo e di Danah Boyd sulle dinamiche digitali, hanno dimostrato che il discorso pubblico sui social si organizza in camere dell’eco, dove opinioni si rafforzano all’interno di comunità chiuse.
I social media hanno giocato un ruolo cruciale nel plasmare il discorso pubblico. Le piattaforme premiano contenuti brevi ed emotivi, penalizzando narrazioni articolate. Studi recenti mostrano che le informazioni false si diffondono più velocemente di quelle vere, perché suscitano emozioni come rabbia o paura. Il debunking stesso rischia di rafforzare le convinzioni errate. Questa dinamica ha creato terreno fertile per il negazionismo e l’antiscienza, rendendo difficile raggiungere il pubblico con messaggi equilibrati.
La vittoria di Trump e il successo del negazionismo climatico sono un segnale: non stiamo solo combattendo una battaglia di fatti contro falsità, ma una guerra di narrazioni. La verità scientifica, da sola, non basta per vincere il consenso. Abbiamo bisogno di empatia, di comprendere le paure e le speranze del pubblico. Se vogliamo affrontare sfide globali come il cambiamento climatico, dobbiamo ripensare profondamente il nostro modo di comunicare. Non possiamo più ignorare l’aspetto emotivo della comunicazione, né sottovalutare l’impatto delle narrazioni polarizzanti. Ripensare la comunicazione scientifica significa anche riconoscere il potere delle storie personali e delle esperienze vissute. Le persone si relazionano più facilmente a racconti concreti e tangibili che ai grafici o alle statistiche. Raccontare l’impatto del cambiamento climatico sulla vita quotidiana di una comunità può suscitare empatia e coinvolgimento molto più di un report tecnico.
Non possiamo dimenticare che il pubblico non è un monolite. Esistono differenze culturali, economiche e sociali che influenzano il modo in cui le persone recepiscono i messaggi scientifici. Per raggiungere una platea più ampia, dobbiamo diversificare le nostre strategie, collaborare con leader di comunità e adottare linguaggi e strumenti che siano accessibili a tutti. Solo così potremo superare le barriere che oggi impediscono alla scienza di dialogare con la società.(30Science.com)