Roma – Il materiale comunemente utilizzato negli impianti di rete vaginale, TVM, realizzati con materiali sintetici come il polipropilene, utilizzati per trattare il prolasso degli organi pelvici e l’incontinenza urinaria da sforzo, possono causare danni alla zona vaginale che può degradarsi entro 60 giorni dall’impianto. Lo rivela uno studio condotto dagli scienziati dell’Università di Sheffield, pubblicato sul Journal of the Mechanical Behaviour of Biomedical Materials. Sulla base dei risultati, gli attivisti hanno chiesto “azioni immediate” da parte della comunità medica e degli enti normativi per “garantire che nessun’altra vita venga distrutta da questo prodotto pericoloso”. Tra gli effetti collaterali si segnalano infezioni, dolore pelvico, difficoltà a urinare, dolore durante i rapporti sessuali e incontinenza. Nel 2018, il Servizio Sanitario Nazionale ha limitato l’uso degli impianti TVM; ora vengono utilizzati solo come ultima risorsa attraverso un programma di massima vigilanza e pratiche limitate. Lo studio ha esaminato una rete in polipropilene impiantata nelle pecore, che condividono un’anatomia pelvica simile a quella delle donne. Gli scienziati hanno scoperto che le fibre cominciavano a degradarsi entro 60 giorni, diventando più rigide e mostrando segni di ossidazione, un processo che aumentava nel tempo. I ricercatori hanno scoperto anche particelle di polipropilene nel tessuto circostante il sito di impianto. Secondo lo studio, la concentrazione di queste particelle era 10 volte più elevata dopo 180 giorni rispetto a 60 giorni. “Questa ricerca fornisce prove fisiche oggettive del fatto che questo materiale non si adatta bene all’impianto nel bacino”, ha detto Sheila MacNeil, professoressa emerita di biomateriali e ingegneria tissutale presso l’Università di Sheffield. “Questo è fondamentale per sviluppare materiali nuovi e migliori per le migliaia di pazienti che soffrono di incontinenza urinaria da sforzo e prolasso degli organi pelvici”, ha continuato MacNeil. “Ora sappiamo come valutare eventuali problemi nei nuovi materiali prima che vengano impiantati nelle donne”, ha aggiunto MacNeil. “È fondamentale effettuare test per individuare potenziali guasti nei materiali, anziché testare materiali non testati sui pazienti”, ha precisato MacNeil. Secondo i ricercatori, la rete chirurgica in polipropilene non è stata testata per l’idoneità nel sito di impianto, ma piuttosto si è ipotizzato, sulla base del successo della rete in polipropilene utilizzata per trattare le ernie addominali, che la stessa rete avrebbe funzionato altrettanto bene nel pavimento pelvico, come prova il fatto che più di cento donne in Inghilterra, affette da complicazioni dovute agli impianti vaginali, hanno ricevuto risarcimenti nell’ambito di un accordo di gruppo. “I nostri risultati forniscono una solida prova dell’instabilità del polipropilene e offrono nuove informazioni sui meccanismi che contribuiscono alla sua degradazione all’interno dell’organismo”, ha dichiarato Nicholas Farr, ricercatore presso l’Università di Sheffield e responsabile dello studio. “Sebbene il recente risarcimento economico per i pazienti colpiti sia senza dubbio uno sviluppo gradito, permane un’urgente necessità clinica di materiali più sicuri per trattare il prolasso degli organi pelvici”, ha proseguito Farr. “Spero che le intuizioni di questo studio vengano riconosciute dagli attuali e futuri produttori e contribuiscano allo sviluppo continuo di alternative più sicure”, ha sottolineato Farr. “I risultati forniscono prove ancora più schiaccianti sui pericoli delle reti in polipropilene”, ha affermato Kath Sansom, fondatrice del gruppo di supporto Sling The Mesh, che conta quasi 11.000 membri in tutto il mondo. “La comunità di persone che ha riportato danni ha dovuto sopportare complicazioni debilitanti, ignara del fatto che il materiale plastico impiantato nei loro corpi non è adatto allo scopo e potrebbe degradarsi molto rapidamente”, ha evidenziato Sansom. “Questo studio conferma ciò che molti di noi sospettavano: la rete diventa instabile, causando danni irreversibili”, ha specificato Sansom. “È fondamentale che questa nuova ricerca venga utilizzata per promuovere cambiamenti immediati nella pratica medica, inclusa la necessità per i chirurghi di reimparare le competenze tradizionali utilizzando metodi affidabili basati sui tessuti nativi per correggere il prolasso e l’incontinenza da stress, senza reti di plastica”, ha suggerito Sansom. “I pazienti meritano di meglio; dobbiamo impedire ulteriori sofferenze”, ha osservato Sansom. “Le persone erano convinte che il trattamento fosse sicuro, ma si è ritrovata a dover affrontare dolori cronici, infezioni, perdita di mobilità, malattie autoimmuni e persino danni agli organi e asportazione di organi, dove il materiale plastico è diventato fragile, agendo come un coltello interno che taglia tessuti e nervi”, ha notato Sansom. “È del tutto inaccettabile che così tante persone non siano state informate di questi rischi”, ha precisato Sansom. “La comunità medica e gli enti normativi devono adottare misure immediate sulla base di questa ricerca per garantire che nessuna vita venga distrutta da questo prodotto pericoloso”, ha ammonito Sansom. “La sicurezza dei pazienti è la nostra massima priorità e l’uso di reti chirurgiche per il trattamento dell’incontinenza urinaria da sforzo e del prolasso degli organi pelvici è soggetto a restrizioni dal 10 luglio 2018”, ha sottolineato Alison Cave, responsabile della sicurezza presso la Medicines and Healthcare products Regulatory Agency, MHRA. “Vengono fatte eccezioni nei casi in cui questo tipo di rete potrebbe essere l’unica opzione terapeutica adatta a una donna”, ha commentato Cave. “Tuttavia, dovrebbe essere utilizzato solo su pazienti attentamente selezionati, che siano stati informati e comprendano i benefici e i rischi e per i quali siano state esplorate tutte le altre opzioni terapeutiche”, ha concluso Cave. (30Science.com)
Lucrezia Parpaglioni
Materiale per gli impianti vaginali, possibile causa di danni alla zona pelvica
(24 Ottobre 2024)
Lucrezia Parpaglioni
Sono nata nel 1992. Sono laureata in Media Comunicazione digitale e Giornalismo presso l'Università Sapienza di Roma. Durante il mio percorso di studi ho svolto un'attività di tirocinio presso l'ufficio stampa del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Qui ho potuto confrontarmi con il mondo della scienza fatto di prove, scoperte e ricercatori. E devo ammettere che la cosa mi è piaciuta. D'altronde era prevedibile che chi ha da sempre come idolo Margherita Hack e Sheldon Cooper come spirito guida si appassionasse a questa realtà. Da qui la mia voglia di scrivere di scienza, di fare divulgazione e perché no? Dimostrare che la scienza può essere anche divertente.