Lucrezia Parpaglioni

Le pratiche pastorali Masai non impattano sulla Riserva Nazionale Maasai Mara

(11 Settembre 2024)

Roma – Le pratiche pastorali dei Masai non hanno avuto quasi nessun effetto positivo o negativo sul benessere ecologico della Riserva Nazionale Masai Mara. Lo rivela uno studio guidato da Bilal Butt dell’Università del Michigan, pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences. “Si tratta di un contesto importante per una terra che accoglie i turisti e che esclude gli agricoltori indigeni, a volte in modo violento”, ha dichiarato Butt, che lavora presso la School for Environment and Sustainability, SEAS, dell’U-M. Egli spera che il lavoro del suo gruppo di ricerca contribuisca a rimodellare il modo in cui le persone pensano a chi può usare la terra, per cosa, e da dove provengono le convinzioni che usiamo per rispondere a queste domande. “C’è l’idea che vedere le mucche nella ‘natura selvaggia’ sia innaturale”, ha aggiunto Butt. “Ma cos’è più innaturale: le persone che fanno safari con le loro Land Cruiser a quattro ruote motrici o le mucche che mangiano erba?”, ha continuato Butt. La Riserva Nazionale Masai Mara è stata istituita per proteggere la fauna selvatica, ma negli ultimi decenni ha visto ridursi le popolazioni dei suoi grandi e iconici erbivori, tra cui zebre, impala ed elefanti. Ricercatori e conservazionisti hanno individuato nella pratica dei Masai di far pascolare il bestiame sui terreni protetti una delle cause del declino. Butt, tuttavia, ha messo in discussione il contesto in cui queste affermazioni vengono fatte. Nel corso della sua istruzione e formazione, l’esperto ha visto come le teorie e le pratiche di conservazione prevalenti omettano le conoscenze ancestrali delle persone che hanno vissuto sulla terra molto prima che la riserva fosse istituita nel 1961. “Più imparavo, più rifiutavo quello che sentivo”, ha affermato Butt. “La conoscenza non proveniva dalle persone che vivevano qui, dal Nord globale, con una conoscenza molto limitata di come i Masai allevano il bestiame e interagiscono con l’ambiente”, ha proseguito Butt. Con il sostegno di un premio CAREER della National Science Foundation, Butt e il suo gruppo di ricerca hanno lavorato per contribuire ad affermare il ruolo di queste conoscenze trascurate nella scienza e nella politica della conservazione. “Troppo spesso si è fatto affidamento sull’interpretazione di esperimenti progettati per approssimare il mondo reale, a scapito dello studio di ciò che stava accadendo”, ha commentato Butt. “La gente dice sempre che il bestiame è cattivo, ma da dove viene questa idea? Viene da una ricerca che non comprende accuratamente come le popolazioni indigene e il loro bestiame interagiscono con il paesaggio”, ha affermato Butt. “Volevamo fare qualcosa che fosse basato sulla loro realtà”, ha sottolineato Butt. Per la loro ultima ricerca, Butt e Wenjing Xu, ricercatore post-dottorato presso il SEAS, si sono concentrati sulla misurazione e sulla quantificazione dell’impatto delle pratiche di pascolo del bestiame dei Masai. Per farlo, hanno ispezionato 60 siti della riserva ogni mese per 19 mesi, facendo osservazioni sul bestiame, sulla fauna selvatica, sulla vegetazione e sul suolo. Gli scienziati hanno, inoltre, utilizzato modelli ecologici e statistici per quantificare a fondo l’impatto del pascolo del bestiame su queste caratteristiche ecologiche. Il lavoro ha confermato che il bestiame e i grandi erbivori selvatici condividono gli stessi spazi, soprattutto vicino al confine della riserva. Ma, l’effetto diretto e misurabile del bestiame sul territorio del parco e sui grandi erbivori è stato minimo. Delle 11 specie studiate da Butt e Xu, solo i bufali hanno mostrato di essere stati spostati dal bestiame e l’effetto è stato abbastanza piccolo da essere definito “trascurabile”. Inoltre, sebbene il bestiame abbia perturbato la qualità del suolo e la quantità di vegetazione, gli effetti sono stati minori rispetto a quelli derivanti dall’attività naturale degli erbivori selvatici. “C’è una certa fretta di criticare le popolazioni locali e ciò che fanno come necessariamente dannoso, ma non è così”, ha evidenziato Butt. “Se si pensa alla questione in modo olistico, guardando al problema dal punto di vista ecologico, storico e culturale, il messaggio è molto diverso da quello che abbiamo sentito: non si tratta di tristezza e di malinconia, ma si tratta di sostenibilità”, ha concluso Butt.(30Science.com)

Lucrezia Parpaglioni
Sono nata nel 1992. Sono laureata in Media Comunicazione digitale e Giornalismo presso l'Università Sapienza di Roma. Durante il mio percorso di studi ho svolto un'attività di tirocinio presso l'ufficio stampa del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR). Qui ho potuto confrontarmi con il mondo della scienza fatto di prove, scoperte e ricercatori. E devo ammettere che la cosa mi è piaciuta. D'altronde era prevedibile che chi ha da sempre come idolo Margherita Hack e Sheldon Cooper come spirito guida si appassionasse a questa realtà. Da qui la mia voglia di scrivere di scienza, di fare divulgazione e perché no? Dimostrare che la scienza può essere anche divertente.