(30Science.com) – Roma, 14 dic. – All’una di notte del 5 dicembre, i ricercatori del National Ignition Facility (NIF) in California, concentrando 2,05 megajoule di luce laser su una minuscola capsula di combustibile per fusione hanno innescato un’esplosione che ha prodotto 3,15 MJ di energia, l’equivalente di circa tre candelotti di dinamite.
Si tratta di un passo in avanti importante perchè fino ad oggi, gli esperimenti non erano mai andati in positivo (net gain). Un risultato che non sorprende perché andando indietro nel tempo e scorrendo i risultati ottenuti in passato, il livello di energia ottenuto durante un processo di reazione di fusione controllata è stato sempre in crescita. I dati di oggi sarebbero in linea con l’evoluzione delle tecnologie e ci avvicinano a una nuova fase dello sviluppo di un ipotetico reattore. “Il guadagno è quasi 1.5, che – ha spiegato Stefano Atzeni, fisico della Sapienza che ha lavorato anche con alcuni dei gruppi coinvolti negli esperimenti di Livermore – è poco per un reattore. C’è bisogno di 50 o 100, ma è 30 volte quello che si otteneva 2 anni fa e più del doppio del miglior esperimento precedente. Quello che conta veramente è che si è dimostrato che il plasma ignisce, cioè si autoriscalda. Una volta accese le reazioni, il calore delle reazioni riscalda ulteriormente il plasma. Ovvero, il plasma che inizia a reagire funziona da cerino che accende il resto del plasma. Questo è un risultato storico; guadagno 1 o 2 significa relativamente poco”
Le tecnologie
Le strade per arrivare a questo obiettivo sono fondamentalmente due. C’è la via europea, ma anche giapponese e cinese, che punta sul confinamento magnetico del plasma prodotto, e quella americana, che invece usa i raggi laser per comprimere i nuclei atomici e farli fondere tra loro. “A differenza della ‘via europea’ alla fusione, che si basa – si pensi al progetto ITER – sul confinamento magnetico del plasma, i ricercatori del LLNL hanno utilizzato il confinamento laser”. “Volendo semplificare al massimo – spiega Emilio Santoro ex-direttore responsabile del reattore di ricerca TRIGA RC-1 del Centro Enea Casaccia – nel primo caso si utilizza una enorme quantità di calore per ottenere che due protoni arrivino tanto vicini da vincere la forza di reciproca opposizione elettromagnetica, per sfruttare poi la forza nucleare forte per dare origine alla fusione. Nel secondo caso invece laser potentissimi – nel caso di specie sono 192 – utilizzano l’energia della luce per creare un effetto simile a quello generato dalla gravità, simulando in altri termini l’avvio della reazione nucleare di fusione che avviene nelle stelle, come ad esempio il nostro Sole”.
La competizione internazionale
La corsa alla fusione nucleare investe tutti i grandi paesi sviluppati, incluse le grandi potenze asiatica, Cina e Giappone. La maggior parte dei paesi partecipa al Consorzio per l’International Thermonuclear Experimental Reactor, ITER che raccoglie a vario titolo Unione europea, Russia, Cina, Giappone, Stati Uniti d’America, India, Corea del Sud. L’Italia è coinvolta principalmente nella progettazione e costruzione del sistema di sospensione magnetica, tramite il Consorzio RFX (Padova) del sistema di riscaldamento tramite iniettore di neutri per fusione e del condotto di scarico dell’elio. Circa il 60% dei contratti industriali per la costruzione di ITER sono stati aggiudicati da aziende italiane. ITER è un grande reattore nucleare in fase di costruzione nel Sud della Francia, a Cadarache, nei pressi di Aix en Provence, che impiega tecnologia a confinamento magnetico.
Sempre sulla tecnologia a confinamento magnetico sono attivi negli Stati Uniti, i ricercatori del MIT Plasma Science & Fusion Center che, in collaborazione con Commonwealth Fusion Systems (spin-out del Massachusetts Institute of Technology finalizzato a velocizzare l’applicazione industriale della fusione a confinamento magnetico) e con Eni, sta sviluppando il progetto concettuale per SPARC, un reattore di fusione più compatto, che grazie all’impego di magneti superconduttori dovrebbe riuscire a produrre una potenza tra i 50 e i 100 Megawatt con un guadagno energetico superiore a 10.
Anche i cinesi puntano su questa tecnologia e proprio a gennaio di quest’anno uno dei suoi impianti sperimentali, l’Experimental Advanced Superconducting Tokamak (EAST), è riuscito a rimanere accesso per più di 17 minuti con una temperatura del plasma di 70milioni di gradi. Oltre al confinamento magnetico il governo cinese sta provando a raggiungere l’obiettivo con altre tecnologie inclusa quella del contenimento inerziale a laser, e anche formule più sperimentali come quelle della Centrale a impulsi elettrici di Chengdu, nella provincia del Sichuan. Si tratta di un impianto ibrido che combina le tecnologie della fusione e di quelle della fissione nucleare e che dovrebbe essere in funzione già a partire dal 2028.
“Fra i più attivi e dinamici sul profilo della ricerca e dello sviluppo di nuove soluzioni – spiega Stefano Atzeni – sono forse gli inglesi che oltre a collaborare fattivamente nel consorzio ITER, si stanno muovendo anche su altre tecnologie, anche grazie a un buon livello di collaborazione tra università e privati”. Proprio dal Regno Unito arriva una proposta per un reattore a fusione particolarmente innovativo sviluppato dalla First Light Fusion (spin off dell’Università di Oxford) che ha nel suo adivory boards fisici di alto livello. Uno su tutti: Steven Chu, Premio Nobel per la fisica ed ex ministro dell’energia con il Presidente USA Barak Obama. Si tratta di un reattore che punta ad ottenere la fusione nucleare sfruttando la compressione prodotta da un proiettile lanciato verso il bersaglio (il combustibile).
Arrivare a meta
Ora, con la conferma dei risultati raggiunti dai Laser a Livermore e sperando che quelli previsti dagli ingegneri di ITER siano raggiunti quando il reattore sperimentale di Cadarache (Sud della Francia) entrerà in funzione (quando?), il punto cruciale da risolvere è come passare da questi esperimenti, alla realizzazione di macchine che possano produrre energia a fini industriali.
Per produrre energia in maniera continua occorre avere a disposizione non solo una fonte di energia, ma anche un complesso sistema che riesca a trasformare questa energia (calore o energia cinetica nel caso delle centrali idroelettriche ed eoliche) in energia elettrica. Si tratta cioè di estrarre l’energia prodotta dalla reazione (combustione, fissione o fusione) e di convertirla in elettricità. Nelle centrali convenzionali, ma anche in quelle nucleari questo processo avviene attraverso un sistema di scambiatori di calore che sfruttano le caratteristiche del vapore acqueo per azionare i generatori, di solito turbine. Nel caso della fusione nucleare le due tecnologie impiegate hanno implicazioni diverse non solo nel processo di generazione dell’energia, ma anche, nella ingegneria complessiva del sistema che poi è destinato a produrre elettricità. Per fare una analogia, il sistema europeo è più simile a un motore a vapore, come quello delle locomotive, in cui la fiamma si sviluppa all’interno della camera di combustione e brucia in maniera continua. La sfida di Iter è quella di riuscire a mantenere una reazione di fusione accesa e controllabile, che produca più energia di quella necessaria al suo confinamento con campi magnetici. L’approccio americano è diverso ed è, usando la stessa analogia, più simile a un motore a scoppio, per la precisione un motore diesel, in cui l’innesco del combustibile avviene per compressione del combustibile (in questo caso i laser convergenti). La reazione avviene all’interno di una sfera che potremmo paragonare al cilindro di un motore a scoppio. Quello che è stato ottenuto è solo un primo scoppio di questo motore, ora c’è da pensare a costruire il resto del sistema, il sistema e la sfida non è da poco.
Il primo problema è quello dello scoppio innescato con i laser. Per avere un sistema efficace serve arrivare a migliaia di spari al giorno. “Con questa tecnologia – spiega Atzeni – è possibile pensare di ottenere solo qualche sparo al giorno. I laser impiegati sono molto potenti e non possono essere utilizzati con una frequenza molto alta. Per farlo serve migliorare e di molto questa tecnologia, che esiste già per i laser a bassa potenza, ma va implementata per quelli ad altissima potenza che sono quelli necessari per la fusione”. Poi, aggiunge Atzeni “serve riuscire ad ottenere laser più efficienti sotto il profilo energetico con una rendimento migliore”. La speranza è che con ulteriori investimenti questo gap, almeno nel campo dei laser possa essere superato
Il secondo ostacolo da superare è quello del caricamento, o meglio, per tornare alla metafora del motore a scoppio, dell’alimentazione. “Attualmente – dice Atzeni – le singole capsule di combustibile (sono di mezzo millimetro di diametro) sono prodotte attraverso sistemi sofisticatissimi e sono perfino rifinite a mano con il microscopio. I costi e i tempi di produzione sono molto alti. Inoltre per poter essere posizionate correttamente (devono essere colpite simultaneamente da 196 raggi laser) viene utilizzato un robot che ha un margine di errore di pochi micron. Pensare di ripetere questo processo per un ciclo di scoppi più elevato è davvero complicato. Nulla di insuperabile, ma certo nemmeno così alla portata”.
La terza difficoltà è quella legata alla cattura dell’energia prodotta dalla fusione e alla sua trasformazione in energia utile per essere sfruttata da un generatore. “In questo caso – spiega ancora Atzeni – le difficoltà crescono. La reazione di fusione libera energia sotto forma di raggi alfa e di neutroni. L’obiettivo è quello di intercettare questi neutroni all’interno di una struttura attraversata da un liquido composto da una miscela di litio, berillio e fluoro che sia in grado di lavorare a una temperatura di 400 gradi centigradi e che permetta così di ottenere calore utile alla generazione di elettricità e soprattutto a produrre altro trizio, un isotopo dell’idrogeno che non si trova in natura, ma è indispensabile per alimentare i processi di fusione nucleare”.
Difficoltà analoghe ci sono anche per quanto riguarda la tecnologia del confinamento magnetico. “Anche in questo caso – spiega Atzeni – la sfida è quella di estrarre energia dal plasma prodotto dalla reazione e contenuto all’interno dei campi magnetici. E’ una sfida che i colleghi che lavorano su questo tipo di macchine conoscon bene, ma che fino a quando non sarà messa alla prova non potremo dire di aver vinto”.
I tempi
“Visto come stanno le cose – chiarisce Atzeni – dubito che possiamo pensare di vedere un reattore a fusione allacciato alla rete prima dei prossimi 30 anni. I tempi necessari allo sviluppo di queste tecnologie vanno misurati in questa direzione. Possiamo pensare di accorciare questo orizzonte temporale solo nel caso da qualche parte dovesse emergere qualche novità dirompente, per esempio dei nuovi materiali superconduttori, o altre tecnologie che possono permettere di trovare soluzioni efficienti. Ma anche in questo caso non penso si possa guadagnare più di una decina di anni”. (30Science.com)