Roma – Dopo l’impatto della sonda della NASA DART il 26 settembre 2022 contro Dimorphos, la luna del sistema binario di asteroidi Near-Earth (65803) Didymos, gli occhi degli esperti si sono concentrati sugli effetti dell’esperimento di difesa planetaria. L’obiettivo era testare la possibilità di deviare un corpo vagante come un asteroide nel caso in cui costituisca una minaccia per il nostro pianeta. Eventualità, questa, che dipende anche dalle caratteristiche geologiche del corpo, dalla sua dinamica, e più in generale dalla sua storia. Nature Communications ha pubblicato oggi un’edizione speciale a tema “Difesa planetaria, detriti spaziali e asteroidi Near-Earth” contenente, fra gli altri, cinque articoli che analizzano le caratteristiche e la storia geologica dei due asteroidi Near-Earth di tipo S osservati dalla missione DART-LICIACube, Didymos e Dimorphos. Coautori di tutti, e primi autori di due, Alice Luchetti e Maurizio Pajola dell’INAF di Padova. Agli articoli hanno partecipato anche ulteriori ricercatrici e ricercatori dell’INAF, dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), di IFAC-CNR, del Politecnico di Milano e delle Università di Bologna e Parthenope. I due articoli a guida INAF si focalizzano, rispettivamente, sull’analisi delle fratture presenti nei massi dell’asteroide Dimorphos – causate da shock termici fra il giorno e la notte – e sul processo di formazione dei due asteroidi, tramite l’identificazione e l’analisi dei massi sulla loro superficie.
Osservare da vicino la superficie di un asteroide e analizzarne la geologia può dire molto sulla sua storia di formazione. Utilizzando le immagini ad alta risoluzione di Didymos e Dimorphos riprese dalla missione della NASA DART pochi istanti prima dello schianto su Dimorphos, Pajola e il suo team hanno identificato tutti i massi visibili sulla superficie dell’asteroide primario Didymos (per un totale di 169) e dell’asteroide secondario Dimorphos (per un totale di 4734), ricavandone le dimensioni. Hanno poi studiato la distribuzione in taglia di questi massi (in gergo scientifico chiamata SFD, dall’inglese Size-Frequency Distribution) contando quanti massi più grandi di una data dimensione ci sono, in vari intervalli di “taglia”, e collegato questa stima con la distribuzione delle taglie in latitudine, longitudine, pendenza superficiale, accelerazione gravitazionale e insolazione.
“Lo studio della distribuzione in taglia dei massi più grandi di 5 metri su Dimorphos, e di quelli più grandi di 22,8 metri su Didymos, ci ha permesso di dire che questi si sono formati a seguito di
un singolo evento di frammentazione – un impatto catastrofico – di un asteroide padre”, spiega Maurizio Pajola, ricercatore all’INAF di Padova e primo autore dello studio. I due corpi sarebbero, secondo i risultati, aggregati di frammenti rocciosi formatisi a seguito della distruzione catastrofica di un unico genitore comune. Scoperta, questa, confermata anche dalle simulazioni di impatti iperveloci svolte in laboratorio, nonché dall’identificazione dei massi più grandi presenti sui due corpi: 16 metri quello su Dimorphos, e 93 metri quello su Didymos, valori che equivalgono a circa un decimo della dimensione dell’asteroide su cui si trovano. Massi così grandi, infatti, non potrebbero essersi formati a seguito di impatti sulle superfici dei due corpi, che sarebbero rimasti disintegrati nello scontro.
Due asteroidi, un genitore comune, dunque. Non solo: la distribuzione in taglia dei massi sui due corpi si è rivelata molto simile, cosa che fa pensare che Dimorphos, il più piccolo dei due, in orbita attorno a Didymos, abbia ereditato i propri massi dal compagno. Come? Attraverso il cosiddetto effetto YORP. In pratica, mentre un asteroide ruota su sé stesso, la sua superficie viene illuminata dal Sole in maniera disomogenea, dal momento che la sua geologia è complessa e irregolare. Il risultato è che diverse regioni vengono riscaldate e si raffreddano a velocità differenti, creando una differenza di temperatura che a sua volta può far accelerare o rallentare la rotazione. Un effetto apprezzabile per asteroidi di dimensioni chilometriche o sub-chilometriche, come nel caso di Didymos. L’asteroide attualmente ha un periodo di rotazione di 2,26 ore, ma secondo le simulazioni numeriche basterebbe una lievissima accelerazione che riduca il periodo di rotazione a 2,2596 ore per causare l’eiezione di massi dalla regione equatoriale. È possibile, dunque, secondo i ricercatori, che in passato Didymos ruotasse più velocemente a causa dell’effetto YORP, e che abbia eiettato alcuni massi formando Dimorphos. Scenario, questo, che sarebbe supportato da almeno due evidenze osservative: la prima su Dimorphos, che presenta una distribuzione in taglia simile all’asteroide primario; la seconda su Didymos, che conta una minore densità di massi all’equatore.
L’immagine acquisita dallo strumento DRACO (Didymos Reconnaissance and Asteroid Camera for Optical navigation) a bordo di DART poco prima dell’impatto, con la sua risoluzione di 5,5 cm sulla superficie di Dimorphos, ha infatti permesso di vedere fratture sulle rocce di Dimorphos con lunghezze variabili da 0,4 a 3 metri, secondo quanto riportato nello studio guidato da Alice Lucchetti, ricercatrice all’INAF di Padova.
“La domanda di partenza è stata: Come si formano le fratture che vediamo sui massi di Dimorphos?” dice Lucchetti. “Abbiamo mappato manualmente le fratture, misurato la loro lunghezza e orientazione, notando che esse sembrano puntare quasi tutte verso la stessa direzione (nordovest-sudest), un dato indicativo dell’azione dello stress termico su queste rocce. Infatti, se queste fossero causate da frane o impatti, punterebbero tutte in direzioni diverse”.
Tramite l’applicazione di un modello termofisico che ha determinato la variazione di temperatura fra giorno e notte sull’asteroide, gli autori sono quindi stati in grado di affermare che il calore del Sole è effettivamente in grado di fratturare le rocce di Dimorphos e, in particolare, che gli stress termici generano la formazione di fratture superficiali che si propagano più rapidamente nella direzione orizzontale al masso stesso rispetto a quella verticale. Ciò avviene in un arco di tempo compreso tra 10mila e 100mila anni, e questa è la prima volta che viene effettuata una simile analisi per un asteroide di tipo S, silicatico.
“Capire come la fatica termica (questo il nome in gergo del fenomeno) agisca su piccoli corpi di diversa composizione è importante non solo per avanzare la conoscenza riguardo la formazione ed evoluzione del Sistema Solare – continua Lucchetti –, ma anche nell’ambito della difesa planetaria. Per predire la risposta e l’efficacia di un impattore cinetico, come la sonda DART su Dimorphos, bisogna conoscere bene il comportamento dei massi presenti sulla superficie dell’asteroide”.
Un fenomeno, questo della fatica termica, che sarebbe avvenuto in situ su Dimorphos dopo la formazione del corpo, e quindi dopo il trasferimento dei massi dall’asteroide Didymos. A dimostrarlo, l’orientazione delle crepe coordinata nei diversi massi: se la frattura termica fosse avvenuta sui massi di Dydimos, poi eiettati su Dimorphos, la direzione delle fratture risulterebbe disordinata e casuale.
“La fatica termica sarebbe quindi in grado di provocare crepe nelle rocce che la subiscono, fino a frantumarle”, conclude Lucchetti.
“Il problema, però – aggiunge Pajola – è che non riusciamo a identificare la polvere causata dal processo di frammentazione. Ciò suggerisce che Dimorphos sia talmente giovane che quelle che stiamo vedendo siano le prima fratture formatisi sui massi dell’asteroide. Capire questo aspetto sarà fra gli obiettivi di studio principali della missione dell’ESA HERA, che entrerà in orbita attorno al sistema binario a fine 2026”.(30Science.com)