Roma – Un nuovo studio condotto all’IRCCS Ospedale San Raffaele e Università Vita-Salute San Raffaele, in collaborazione con la New York University e prestigiosi centri di ricerca italiani (Università di Padova, Università di Trento, IRCCS Istituto Auxologico Italiano, Università di Ferrara) apre nuove prospettive per la terapia della malattia di Parkinson, una delle più comuni malattie neurodegenerative. Le ricercatrici hanno messo a punto un nuovo modello sperimentale di malattia, diverso da tutti quelli creati finora, che rappresenta un grande passo avanti per futuri studi, sia per testare farmaci per contrastare la malattia sia per studiarne i meccanismi di insorgenza prima che si manifestano i sintomi.
La ricerca, coordinata da Jenny Sassone, docente di farmacologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele e ricercatrice dell’Unità di Neuropsicofarmacologia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, è pubblicata sulla prestigiosa rivista BRAIN ed è finanziata dal Ministero dell’Università e della Ricerca, dalla Fondazione Telethon e dall’Unione Europea nel contesto del PNRR.
La malattia di Parkinson ad oggi affligge circa 10 milioni di persone in tutto il mondo. Si stima che in Italia il numero di individui con questa patologia si aggiri intorno a 250mila, con una prevalenza di circa 300 casi ogni 100.000 abitanti. Anche se la malattia è più comune tra gli anziani, con un’incidenza che aumenta significativamente dopo i 60 anni, circa il 10-15% delle persone presenta i sintomi prima dei 50 anni a causa del cosiddetto Parkinson giovanile, identico nei processi degenerativi e nei sintomi a tutti gli altri tipi di Parkinson, se non per la differenza nella precocità di comparsa. I primi sintomi solitamente si manifestano in modo subdolo e comprendono tremori a riposo, rigidità muscolare e lentezza nei movimenti. Tuttavia, possono precedere questi segnali dei sintomi non motori come disturbi del sonno, depressione e perdita dell’olfatto, che possono comparire anche diversi anni prima dei segni più evidenti compromettendo decisamente la qualità di vita dei pazienti. Spesso la patologia viene curata con farmaci sintomatici che hanno ottima efficacia nel controllare la sintomatologia per qualche anno, ma purtroppo non sono in grado di prevenire l’insorgenza della malattia o rallentarne il decorso.
Lo studio appena pubblicato racconta lo sviluppo di un nuovo modello preclinico che ricapitola le caratteristiche del Parkinson Giovanile dovuto a mutazioni nel gene PARKIN (Autosomal Recessive Juvenile Parkinsonism-ARJP).
Ricerche precedenti avevano già dimostrato la possibilità di creare in laboratorio modelli preclinici di malattia basati sulla eliminazione del gene PARKIN coinvolto nella malattia di Parkinson. In questi modelli però, nonostante la defezione del gene, la malattia non dava alcun tipo di sintomo (né degenerazione, né fenotipo motorio) e risultava così difficile poter testare molecole e studiarne i meccanismi di patogenesi.
«Per la prima volta il nostro modello murino, rispetto a tutti gli altri modelli knock out generati fino ad oggi, mantiene attivo il gene PARKIN introducendo una piccola mutazione che riproduce fedelmente le alterazioni neuropatologiche osservate nell’uomo, offrendo così ai ricercatori di tutto il mondo un modello replicabile della malattia umana», spiega la professoressa Jenny Sassone, prima attrice dello studio.
«Siamo molto felici di questo importante contributo e soprattutto di poterlo condividere con tutta la comunità scientifica perché, ancora oggi, per lo studio di alcune malattie e per testare i farmaci più efficaci, i modelli sperimentali sono necessari prima di passare alla clinica e quindi ai test sull’uomo», spiega la professoressa Flavia Valtorta, preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Vita-Salute San Raffaele e responsabile dell’Unità di Neuropsicofarmacologia dell’Ospedale San Raffaele. «Questo modello di Parkinson giovanile fino ad ora è quello che più di tutti si comporta analogamente a quanto accade nell’essere umano riproducendo fedelmente i processi biologici tipici del decorso della malattia e rappresenta un vero punto di svolta perché sarà possibile accelerare gli studi sulla malattia».
«I prossimi step – continua la professoressa Sassone – saranno: studiare i meccanismi molecolari di morte dei neuroni coinvolti nella malattia, sui quali abbiamo già dei dati preliminari, e testare farmaci neuroprotettivi (alcuni di essi hanno già dimostrato una buona efficacia in modelli meno performanti di quello appena messo a punto) pertanto, siamo fiduciose che con questo possano funzionare ancora meglio”.
«Inoltre – afferma la professoressa Valtorta – essendo un modello in-vivo, ci permetterà anche di studiare l’effetto di importanti terapie complementari come, ad esempio, l’esercizio fisico. Dati recenti indicano che l’esercizio fisico sia in grado di attenuare la sintomatologia della malattia di Parkinson: vorremmo capire se questo effetto è legato solo ad un generale miglioramento della condizione fisica, oppure se l’esercizio fisico possa rallentare i fenomeni di degenerazione dei neuroni. In questo ultimo caso si tratterebbe di una scoperta sensazionale, perché avremmo identificato il primo trattamento in grado di avere un effetto neuroprotettivo, oltre ad essere una terapia facilmente disponibile per tutti».
Un altro passo successivo sarà quello di comprendere i cambiamenti cellulari legati all’invecchiamento biologico dei tessuti.
Conclude la professoressa Valtorta: «Rispetto ai meccanismi di invecchiamento dei tessuti, stiamo valutando il ruolo dell’infiammazione e di particolari processi di morte cellulare chiamati necroptosi: questi processi potrebbero essere coinvolti anche nell’invecchiamento fisiologico del cervello che si verifica con l’avanzamento dell’età: comprenderli potrebbe dare indicazioni riguardo a traiettorie per un “invecchiamento in buona salute”, quello che gli americani chiamano healthy aging».(30Science.com)