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L’IA diagnostica l’Alzheimer sei anni prima

(26 Giugno 2024)

Roma  – Attraverso l’analisi degli schemi vocali, un modello di apprendimento automatico si è dimostrato in grado di prevedere, con un alto grado di precisione, se una persona con lieve deterioramento cognitivo svilupperà una demenza associata all’Alzheimer entro sei anni. Lo rivela un nuovo studio dei ricercatori dell’Università di Boston pubblicato su Alzheimer’s & Dementia. Cercare di capire se una persona è affetta dalla malattia di Alzheimer di solito comporta una serie di accertamenti, quali interviste, imaging cerebrale, esami del sangue e del liquido cerebrospinale. Ma, a quel punto, probabilmente è già troppo tardi con i ricordi che hanno iniziato a scivolare via e i tratti della personalità consolidati da tempo che hanno iniziato a mutare sottilmente. Se presi in tempo, i nuovi trattamenti all’avanguardia possono rallentare la progressione della malattia, ma non esiste un modo sicuro per prevedere chi svilupperà la demenza associata all’Alzheimer. Ora, i ricercatori hanno progettato un nuovo promettente programma informatico di intelligenza artificiale, o modello, che un giorno potrebbe aiutare a cambiare le cose, semplicemente analizzando il linguaggio di un paziente. Il loro modello è in grado di prevedere, con un tasso di precisione del 78,5%, se una persona con un lieve deterioramento cognitivo è destinata a rimanere stabile nei prossimi sei anni o a cadere nella demenza associata alla malattia di Alzheimer. Oltre a consentire ai medici di formulare diagnosi più precoci, i ricercatori ritengono che il loro lavoro potrebbe anche contribuire a rendere più accessibile lo screening del deterioramento cognitivo automatizzando alcune parti del processo, rendendo non più necessari costosi esami di laboratorio, esami di diagnostica per immagini e nemmeno visite in ufficio. Il modello si basa sull’apprendimento automatico, un sottoinsieme dell’IA in cui gli scienziati informatici insegnano a un programma ad analizzare i dati in modo indipendente. “Volevamo prevedere cosa sarebbe successo nei prossimi sei anni e abbiamo scoperto che possiamo fare questa previsione con una sicurezza e un’accuratezza relativamente buone”, ha detto Ioannis (Yannis) Paschalidis, direttore del BU Rafik B. Hariri Institute for Computing and Computational Science & Engineering. “Questo dimostra la potenza dell’IA”, ha continuato Paschalidis. “Speriamo, come tutti, che siano disponibili sempre più trattamenti per l’Alzheimer”, ha affermato Paschalidis, che è anche professore emerito di ingegneria del BU College of Engineering e membro fondatore della Faculty of Computing & Data Sciences. “Se si può prevedere cosa accadrà, si ha una maggiore opportunità e una finestra temporale per intervenire con i farmaci e cercare almeno di mantenere la stabilità della condizione e prevenire il passaggio a forme più gravi di demenza”, ha precisato Paschalidis. Per addestrare e costruire il loro nuovo modello, i ricercatori si sono rivolti ai dati di uno degli studi più vecchi e più longevi: il Framingham Heart Study, condotto dalla BU. Sebbene lo studio Framingham sia incentrato sulla salute cardiovascolare, al suo interniìo i partecipanti che mostrano segni di declino cognitivo sono stati sottoposti a regolari test neuropsicologici e interviste, producendo una grande quantità di informazioni longitudinali sul loro benessere cognitivo. A Paschalidis e ai suoi colleghi sono state fornite le registrazioni audio di 166 interviste iniziali con persone, di età compresa tra 63 e 97 anni, a cui era stato diagnosticato un lieve deterioramento cognitivo, di cui 76 che sarebbero rimaste stabili nei sei anni successivi e 90 la cui funzione cognitiva sarebbe progressivamente diminuita. Gli scienziati hanno quindi utilizzato una combinazione di strumenti di riconoscimento vocale, simili ai programmi che alimentano gli altoparlanti intelligenti, e di apprendimento automatico per addestrare un modello in grado di individuare le connessioni tra linguaggio, dati demografici, diagnosi e progressione della malattia. Dopo averlo addestrato su un sottoinsieme della popolazione dello studio, hanno testato la sua capacità predittiva sul resto dei partecipanti. “Combiniamo le informazioni estratte dalle registrazioni audio con alcuni dati demografici di base, come età e sesso, e poi otteniamo il punteggio finale”, ha evidenziato Paschalidis. “Si può pensare al punteggio come alla probabilità che qualcuno rimanga stabile o passi alla demenza”, ha proseguito Paschalidis. “La capacità predittiva è stata significativa”, ha specificato Paschalidis. Invece di utilizzare le caratteristiche acustiche del discorso, come l’enunciazione o la velocità, il modello si basa sul contenuto dell’intervista, ovvero lsule parole pronunciate e la loro struttura. Secondo Paschalidis, le informazioni inserite nel programma di apprendimento automatico sono approssimative, ad esempio, le registrazioni sono disordinate, di bassa qualità e piene di rumore di fondo. “È una registrazione molto casuale”, ha dichiarato Paschalidis. “Eppure, con questi dati sporchi, il modello è in grado di ricavarne qualcosa”, ha precisato Paschalidis. Si tratta di un aspetto importante, perché il progetto si proponeva in parte di testare la capacità dell’intelligenza artificiale di rendere il processo di diagnosi della demenza più efficiente e automatizzato, con un minimo coinvolgimento umano. In futuro, secondo i ricercatori, modelli come il loro potrebbero essere utilizzati per portare l’assistenza ai pazienti che non sono vicini ai centri medici o per fornire un monitoraggio di routine attraverso l’interazione con un’App domestica, aumentando drasticamente il numero di persone sottoposte a screening. Secondo l’Alzheimer’s Disease International, la maggior parte delle persone affette da demenza in tutto il mondo non riceve mai una diagnosi formale, lasciandole escluse da cure e assistenza. “La tecnologia può superare i pregiudizi di un lavoro che può essere svolto solo da chi ha le risorse necessarie o di un’assistenza che si basa su competenze specialistiche non disponibili a tutti”, ha spiegato Rhoda Au, coautrice del lavoro, della BU Chobanian & Avedisian School of Medicine. Nella ricerca futura, Paschalidis vorrebbe esplorare l’utilizzo di dati non solo provenienti da colloqui formali tra medico e paziente ma anche da conversazioni più naturali e quotidiane. Paschalidis sta già pensando a un progetto per capire se l’intelligenza artificiale può aiutare a diagnosticare la demenza tramite un’applicazione per smartphone, oltre a espandere l’attuale studio al di là dell’analisi del parlato, con i test Framingham che includono anche disegni dei pazienti e dati sui modelli di vita quotidiana, per aumentare l’accuratezza predittiva del modello. (30Science.com)

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