Roma – Il paziente GUCH (Grown Up Congenital Heart) è un adulto con patologia cardiaca congenita che necessita di un monitoraggio periodico della salute del cuore. Grazie alle evoluzioni in ambito cardiologico e cardiochirurgico, i pazienti affetti da malformazioni congenite hanno oggi un’aspettativa di vita a medio e lungo termine alta e una qualità di vita migliore, anche se, a volte, si rende necessario ricorrere a interventi chirurgici correttivi che, negli anni, possono richiedere una ulteriore revisione. Così come è successo ad Alessandro, 26enne ligure affetto da Tetralogia di Fallot, una cardiopatia congenita complessa, che è stato recentemente sottoposto per la terza volta ad un intervento cardiochirurgico. Un intervento raro, sia per la complessità sia per il fatto che è stato eseguito con tecnica “bloodless”, cioè con l’applicazione di un protocollo che consente di ottimizzare la “risorsa sangue” del paziente e di evitare le emotrasfusioni durante gli interventi chirurgici.
Presso il Maria Pia Hospitaldi Torino, Ospedale di Alta Specialità di GVM Care & Research accreditato con il SSN, l’équipe di Cardiochirurgia, guidata dal dott. Mauro Del Giglio, ha messo a punto per lui un intervento di correzione della cosiddetta Tetralogia di Fallot, una delle cardiopatie congenite più trattate che tuttavia presenta un quadro complesso, in quanto vede la concomitanza di quattro anomalie cardiache che riducono l’afflusso di sangue ossigenato al corpo e compromettono il regolare funzionamento dell’organo (ovvero il difetto interatriale, l’aorta a cavaliere cioè a cavallo dei due ventricoli, la dilatazione del ventricolo destro e il restringimento sottovalvolare e valvolare polmonare).
Alessandro è stato sottoposto, in altri ospedali, ad un primo trattamento alla nascita e ad un secondo nel 2013 per l’inserzione di una protesi chirurgica valvolare polmonare che negli anni successivi è andata incontro a una fisiologica degenerazione severa. La situazione richiedeva quindi un ulteriore intervento che è stato valutato dagli ospedali di diverse città. Questo perché, alla complessità dell’intervento si aggiungeva anche la richiesta, da parte del paziente, di evitare qualsiasi trasfusione di sangue.
La struttura torinese di GVM Care & Research è centro di riferimento nazionale per la chirurgia bloodless, ovvero “senza sangue”, che consente di ridurre le emotrasfusioni con un recupero post operatorio più veloce. L’applicazione di protocolli di risparmio del sangue (denominati protocolli di Patient Blood Management) è inoltre raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dal Ministero della Salute. Negli ultimi anni i protocolli cardiochirurgici sono stati ulteriormente perfezionati portando alla necessità di trasfusione solo in 1 caso su 3. Questa casistica diviene oggi ancor più rilevante data la grande expertise del team chirurgico tale da poter valutare e accettare anche interventi sempre più complessi.
Tornando al caso di Alessandro, il suo quadro clinico inizialmente è stato valutato da altri ospedali che, a causa del tipo di protesi e del modo in cui negli anni si era calcificata, hanno escluso sia la possibilità di procedere con l’inserimento di una nuova valvola con tecnica percutanea all’interno di quella degenerata sia l’eventualità di eseguire un intervento di cardiochirurgia “open”, giudicato non fattibile data la scelta di rifiutare trasfusioni (con la chirurgia “a cielo aperto” sussiste un maggiore rischio di sanguinamento).
“Il paziente è giunto alla nostra attenzione dopo una serie di rifiuti da parte di altre strutture sanitarie e si è rivolto al Maria Pia Hospital data l’esperienza nell’applicazione di tecniche di risparmio di sangue – racconta il dott. Del Giglio –. Dopo un’attenta valutazione del rischio, ed esclusa la possibilità di poter intervenire per via percutanea, abbiamo messo a punto una procedura “open” che con buone probabilità ci avrebbe permesso di portare a termine l’operazione riducendo il sanguinamento intraoperatorio e la conseguente necessità di trasfusione. L’intervento è stato particolarmente complesso: abbiamo in primis rimosso la vecchia protesi danneggiata, abbiamo poi ricostruito con patch di pericardio l’arteria polmonare e la via di efflusso del ventricolo destro, ed infine abbiamo impiantato una protesi valvolare biologica di calibro adeguato al paziente. In un paziente giovane la protesi biologica ha una durata molto lunga e quando degenererà tra circa una ventina d’anni sarà più semplice un impianto sostitutivo per via percutanea (una protesi meccanica ha invece un rischio di coagulazione molto alto, pertanto richiede l’assunzione di farmaci anticoagulanti, situazione al limite per un paziente che rifiuta le trasfusioni).
La preparazione del paziente ha costituito una fase estremamente importante e determinante per la riuscita dell’intervento: si è intervenuti in primis sui livelli di emoglobina preoperatori che sono stati innalzati a un livello ritenuto ottimale attraverso una stimolazione midollare per la riproduzione più rapida dei globuli rossi, e si è attuato un puntuale recupero del sangue del paziente a livello intraoperatorio.
Il 26enne è stato dimesso dopo 7 giorni di degenza con una buona condizione cardiaca.
“Convivo con questa malattia dalla nascita, sono stato operato la prima volta a soli 3 mesi, poi ancora a 15 anni e quando, a distanza di 12 anni, ad un controllo annuale è emersa la necessità di sostituire la valvola biologica che mi era stata impiantata, in qualche modo ero preparato, conoscevo le difficoltà a cui sarei andato incontro per tenere fede alla mia scelta di non ricorrere a trasfusioni – racconta Alessandro, tempra da lottatore e voce tranquilla -. Così davanti al rifiuto da parte dell’équipe di cardiochirurgia dell’ospedale che mi aveva sempre avuto in cura, dopo essermi documentato, mi sono rivolto al Maria Pia Hospital, dove ho trovato un’équipe di professionisti straordinari, competenti e generosi, che hanno studiato un intervento su misura per il mio caso clinico. Oggi sto bene, il recupero è veloce e spero di tornare quanto prima alla mia vita di sempre”.
La scelta di un paziente di rifiutare emotrasfusioni può essere dettata anche dalla fede religiosa (ad esempio nel caso dei Testimoni di Geova). “In qualità di équipe chirurgica valutiamo se l’intervento presenta un rischio accettabile; l’intervento viene rifiutato qualora non si riuscisse ad individuare una procedura che ci consenta di portare a termine l’intervento senza trasfusioni. Viene pertanto stipulato un “contratto” con il paziente, il quale accetta il rischio di astensione alla trasfusione”, conclude il dott. Del Giglio.(30Science.com)