Roma – È stato pubblicato sulla rivista scientifica Brain Behavior and Immunity, uno studio che dimostra per la prima volta la sicurezza ed efficacia della somministrazione di Interleukina 2 a basso dosaggio in pazienti depressi con disturbo depressivo maggiore (MDD) e bipolare (BD).
La ricerca è stata condotta dal professor Francesco Benedetti, responsabile dell’Unità di ricerca in Psichiatria e Psicobiologia Clinica e professore di Psichiatria all’Università Vita -Salute San Raffaele e dalla dottoressa Sara Poletti, ricercatrice dell’Unità di Psichiatria e Psicobiologia clinica dell’IRCCS Ospedale San Raffaele – Turro.
Nonostante gli enormi miglioramenti nella psicofarmacologia antidepressiva basata su farmaci che agiscono direttamente sulla funzione dei neurotrasmettitori, un terzo dei pazienti con disturbo depressivo maggiore (MDD) non raggiunge una remissione sintomatica completa e nei soggetti con trattamento iniziale inefficace si osservano molte ricadute nonostante la prosecuzione del trattamento apparentemente efficace, aprendo la strada alla depressione resistente al trattamento (TRD). Gli esiti sono ancora peggiori nel Disturbo Bipolare (BD) che è stato associato a tassi di successo estremamente bassi dei farmaci antidepressivi. Da queste basi è partita la necessità di una continua ricerca sui meccanismi patogenetici per rispondere alle esigenze cliniche di un trattamento antidepressivo più mirato ed efficace per un maggior numero di pazienti.
Studi precedenti avevano già dimostrato che una attivazione infiammatoria sistemica precede e si associa alla comparsa di episodi depressivi nel corso del disturbo depressivo maggiore (MDD) o del disturbo bipolare (BD), in quanto portano ad un aumento della produzione di citochine, all’alterazione dell’espressione genica nelle cellule circolanti e alla attivazione della microglia cerebrale, con conseguente sovvertimento dell’equilibrio omeostatico nella produzione di neurotrasmettitori e nella manutenzione dell’apparato sinaptico dei neuroni.
La letteratura inoltre indica che il 30-50% delle persone con disturbi dell’umore presenta uno stato infiammatorio clinicamente identificabile. La depressione, in particolare quando resistente alle terapie antidepressive tradizionali, è accompagnata da uno stato infiammatorio che investe l’intero organismo. I pazienti depressi, infatti, sono più vulnerabili alle malattie infiammatorie e autoimmuni e, a loro volta, queste malattie scatenano la depressione anche in chi non ne ha mai sofferto: la depressione che ha colpito le persone sopravvissute a Covid-19 ne è un esempio.
Le evidenze più recenti suggeriscono che questa attivazione pro-infiammatoria sia una conseguenza di un più generale squilibrio immunitario, con segni di senescenza delle cellule linfocitarie, e loro eccessiva attivazione in senso infiammatorio e autoimmune. Da qui l’ipotesi di stimolare le componenti regolatorie del sistema immunitario, non bloccando le sue funzioni (come si tentò di fare, in passato, con farmaci anti-infiammatori e anticorpi monoclonali) ma indirizzandone l’attività verso un migliore equilibrio omeostatico.
L’interleuchina 2 è una molecola, normalmente presente nell’organismo, con funzioni di immunomodulazione, in grado di influenzare l’attività dei linfociti T, stimolando la produzione di nuove cellule e le loro funzioni regolatorie sull’immunità e sull’infiammazione. Questo fattore di crescita delle cellule T ha dimostrato un’efficacia anti-infiammatoria in altre patologie autoimmuni ed è già in uso sul mercato, benchè in formulazioni diverse dalle microdosi utilizzate in questo studio.
Lo studio appena pubblicato ha valutato la sicurezza, efficacia e le risposte biologiche di Interleuchina 2 (IL-2) a basso dosaggio in pazienti depressi con disturbo depressivo maggiore (MDD) o disturbo bipolare (BD). Sono stati reclutati 36 pazienti nel reparto per i disturbi dell’umore dell’IRCCS Ospedale San Raffaele – Turro e sono stati randomizzati in rapporto 2:1, per ricevere o interleuchina 2 (12 MDD e 12 BD), o placebo (6 MDD e 6 BD).
I ricercatori hanno così definito un trattamento di potenziamento antidepressivo con interleuchina 2 (IL-2) a basso dosaggio, associato alle tradizionali terapie antidepressive che i pazienti stavano assumendo. I cambiamenti nelle frequenze cellulari indotte dalla interleukina sono stati rapidamente ottenuti nei primi cinque giorni di trattamento, e hanno predetto il successivo miglioramento della gravità della depressione, senza effetti collaterali di rilievo. Proporzionalmente alla stimolazione dei linfociti T, i partecipanti allo studio hanno mostrato un potenziamento della risposta antidepressiva, anche quando affetti da forme di depressione resistente ai trattamenti tradizionali.
Lo studio ha quindi confermato che i meccanismi immuno-infiammatori rappresentano obiettivi promettenti per la farmacologia antidepressiva, e che la correzione degli squilibri tra le componenti infiammatorie e regolatorie del nostro sistema immunitario può costituire una nuova strategia terapeutica per la depressione resistente.
Afferma la dottoressa Poletti: “Questo è il primo studio di controllo randomizzato a supporto dell’ipotesi che il trattamento per rafforzare il sistema immunitario, e in particolare le cellule T, può essere un modo efficace per correggere le anomalie immuno-infiammatorie associate ai disturbi dell’umore e al tempo stesso, potenziare la risposta antidepressiva”.
“Pensiamo che i nostri studi possano già modificare la pratica clinica: abbiamo infatti evidenziato con questa ricerca gli effetti terapeutici di Interleuchina 2 a basso dosaggio senza rilevare effetti collaterali. Speriamo che queste evidenze aprano ora la strada a un nuovo modo di intervenire sulla depressione resistente ai trattamenti, sperando di accendere l’attenzione su per affrontare l’iter previsto per ottenere l’indicazione all’uso clinico di questa sostanza per la depressione”, afferma il professor Benedetti.
“Il passo successivo? Stiamo già iniziando a valutare gli effetti di un altro immunomodulatore antidepressivo, la minociclina, di cui studiamo gli effetti sul cervello con tecniche innovative di PET e risonanza magnetica; studiamo inoltre come la storia di esposizione alle malattie infettive e alle esperienze avverse possa aver contribuito a creare quella condizione di disfunzione immunitaria che abbiamo verificato nei partecipanti ai nostri studi. La ricerca prosegue, e pensiamo che in un futuro saremo in grado di identificare già all’inizio della malattia le persone che, anziché dover sopportare la depressione per molti mesi senza benefici dalle cure disponibili, potranno essere curate— e guarire —fin da subito agendo sul sistema immunitario”, conclude il professor Benedetti.(30Science.com)